mercoledì 27 giugno 2007

Pil, il benessere è un'altra cosa


Il filosofo dell'economia Patrick Viveret spiega perché l'idea di ricchezza non può più essere pensata su base monetaria
«Occorre tener conto di nuovi fattori: volontariato, attività domestiche, impegno ecologico. Ambiti che di solito non entrano nei bilanci, ma hanno un preciso valore economico»
«Dietro a ogni forma di calcolo della ricchezza nazionale, Pil compreso, vi sono delle precise scelte sociali. Ci comportiamo come se le contabilità nazionali fossero neutre e oggettive, mentre sono in realtà delle convenzioni che rispondono a scelte storiche». Il filosofo dell'economia Patrick Viveret, consigliere alla Corte dei conti d'Oltralpe e direttore del Centro internazionale Pierre Mendès France di Parigi, accoglie con un certo scetticismo le periodiche «sfornate» di cifre sulle crescite nazionali: la famosa variazione del Pil calcolata ormai, per l'Italia come per gli altri Paesi, su base trimestrale. Incaricato nel 2000 dal governo francese di stendere un rapporto sui «nuovi fattori di ricchezza», Viveret ha sviluppato un'estesa riflessione critica giungendo a una conclusione: «Vi è oggi la necessità di un dibattito democratico sul calcolo della ricchezza», come il filosofo sostiene in Ripensare la ricchezza (Terre di mezzo, 194 pp. 10 euro).
Gli attentati terroristici - lei scrive - fanno crescere la ricchezza nazionale del Paese colpito. Com'è possibile? «Dal momento in cui vi sono flussi monetari, essi sono registrati positivamente nelle contabilità nazionali e nel prodotto interno lordo. Il Pil contabilizza infatti valori aggiunti commerciali o flussi monetari provenienti dalle amministrazioni pubbliche».
Ciò è vero anche per le catastrofi industriali a forte impatto ambientale?«Sì. Evidentemente, non è la catastrofe in sé che fa avanzare il Pil ma i flussi monetari ad essa legati. Le contabilità nazionali non si interessano alla natura delle attività e non distinguono le attività pericolose dalle altre. Inversamente, molte attività utili, necessarie o persino vitali non vengono registrate poiché non producono flussi monetari. Ad esempio, il volontariato, le attività domestiche, il fatto di dare la vita. Tutto ciò non sarà ufficialmente considerato come ricchezza di un Paese».
È stato sempre così?«È così almeno da quando sono stati creati gli attuali sistemi di contabilità nazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Allora, la priorità era la ricostruzione e l'enfasi fu posta sulla produzione industriale. Si sono dunque creati sistemi di contabilità che permettono di valorizzare questo tipo di produzione. Inversamente, non si è tenuto conto di questioni come quella ecologica che non erano all'ordine del giorno. Questa scelta era già discutibile all'epoca. Ma nel contesto attuale in cui i problemi ecologico, educativo e sociale sono divenuti decisivi, questo tipo di contabilità è divenuta largamente inadatta a rappresentare le questioni d'avvenire della nostra società».
Ciò vuol dire che il Pil non ci dice più esattamente quanto siamo ricchi?«Sì, e a mostrarlo sono altri indici come quello di "salute sociale" calcolato in alcuni Paesi fin dal 1959. Si tratta di un modo di calcolo che tiene conto di ben sedici aspetti della vita sociale compresi la mortalità infantile, i suicidi, gli incidenti stradali. Quando si confronta storicamente quest'indice col Pil, ci si accorge che a partire dagli anni Ottanta, in particolare nei Paesi anglosassoni, si produce uno sganciamento. Il Pil continua a crescere, mentre l'indice di salute sociale stagna o si contrae. Per forme di ricchezza tanto essenziali come la salute, non c'è più progressione».
Si è già cercato di correggere il Pil?«Esistono già i cosiddetti indici di "benessere economico" che sottraggono dal conto del Pil le attività considerate come distruttrici e invece tengono conto di fenomeni innegabilmente positivi come il volontariato. Nonostante il monopolio del Pil non sia mai stato messo in dubbio, da una quindicina d'anni c'è un autentico lavoro di ricerca internazionale».
Che rischi comporta, a suo avviso, il monopolio del Pil?«Per comprenderli, è utile considerare l'indice noto come "impronta ecologica": cioé la superficie terrestre necessaria per produrre ogni anno le risorse che sostentano una persona e per smaltire i suoi rifiuti. Confrontando le impronte ecologiche nei vari Paesi, ci si rende presto conto che se tutti gli Stati adottassero il nostro stile di crescita, un solo pianeta non basterà più. E di gran lunga, se riflettiamo ad esempio sull'attuale progressione economica della Cina. Il nostro modo di crescita si mostra di fatto insostenibile e occorre dunque cambiarlo».
Per prendere quale direzione?«Per tornare a una concezione della ricchezza pensata - secondo l'accezione originaria - come ciò che conta: la qualità relazionale, la qualità della vita, la qualità ecologica. Si tratta di ricchezze essenziali. Inversamente, occorrerebbe smettere di credere che tutto ciò che contiamo è una ricchezza. Una passeggiata fra amici a piedi in una foresta sarà vista come totalmente improduttiva o persino controproduttiva nel nostro attuale sistema di conti. Un maxi-ingorgo in centro, al contrario, produrrà molta ricchezza nel senso contabile del termine. In qualche modo, siamo giunti a dei limiti di ricchezza nell'ordine dell'avere, come mostra anche il proliferare dell'economia speculativa. Ma esistono ancora margini enormi di crescita in termini di benessere».
Un problema in fondo etico, dunque...«Sì, nel senso della priorità da dare ai valori. Ma vi è accanto un problema politico e democratico, dato che le scelte contabili non possono essere viste solo come oscure scelte tecniche. Dietro, dovrebbero esserci invece sempre autentiche scelte della società civile».

Nessun commento: